Babel

Un film di Alejandro Gonzalez Inarritu
Genere: Drammatico - Stati Uniti (2006) Durata: 144min.
Produzione: Anonymous Content, Dune Films. 
Distribuzione: 01 Distribution
Trama
Due bambini, figli di un pastore marocchino, si ritrovano tra le mani un fucile con il quale dovrebbero scacciare i lupi che minacciano le loro pecore, ma finiscono, per colpa di un gioco pericoloso, per ferire una turista americana in viaggio nel deserto insieme al marito. Le conseguenze di questo drammatico evento ricadranno sulla governante messicana dei loro due figli, la quale si vedrà costretta a portarseli dietro nel suo viaggio in Messico per assistere al matrimonio di suo figlio; al ritorno essi vivranno, loro malgrado, un incubo. Intanto una ragazza giapponese sordomuta convive con i problemi dovuti al suo handicap, cercando disperatamente l’amore che le è sempre mancato.

Recensione
Per chi non conosce Alejandro Gonzales Inarritu, definito uno dei registi più talentosi della nuova generazione, l’espediente di strutturare la trama di Babel - suo ultimo film dopo il sorprendente esordio di Amores Perros e l’interessante 21 Grammi - in compartimenti apparentemente stagni, volti a formare una linea di racconto irregolare che procede in un andirivieni di esperienze di vita che si intrecciano e si incartano in un corale e drammatico circolo vizioso, potrebbe apparire come un cavalcare l’onda “scatenata” da quel pluripremiato Crash, di Paul Haggis, il quale utilizza quest’analogo stile di narrazione collettiva e frammentata come arma artisticamente riuscita, tale da procurargli l’Oscar come miglior film. Non a caso si pensa fin d’ora a una possibile nomination di Babel per l’oscar 2007, a conferma di come tale filone di impianto squisitamente drammatico (già sviluppato in termini ottimali dal compianto Altman con America Oggi e il sottovalutato Gosford Park o con il Tarantiniano Pulp Fiction) riesca a coniugare gli intenti espressivi ed autoriali dei registi più capaci con il gusto generale del pubblico, sempre più attratto da film che non seguano necessariamente un plot lineare e quindi una sceneggiatura convenzionale. In realtà Inarritu non si adegua alle mode, bensì al suo stile che dimostrava già di saper usare e padroneggiare fin dal suo Amores Perros (del 2000 e quindi in anticipo di Crash di quattro anni), riuscendo a dipingere personaggi le cui sorti sono destinate ad interagire l’un l’altra, realizzando un disegno di un destino comune che confluisce, ineluttabilmente, in un ‘buco nero’ della vita. Quel nero era stato già evocato nello struggente corto realizzato per il film 11 Settembre 2001, dove Inarritu tiene lo schermo nero per alcuni minuti, interrompendolo con brevi flash di uomini che dalle Twin Towers si gettano nel vuoto.

E se Amores Perros lontanamente rievoca caratteri Pulp, Babel, sebbene non sia ‘ordinato’ in capitoli titolati, rievoca i caratteri di Amores Perros mostrando come Inarritu sia comunque fedele a se stesso, nonostante il suo 21 Grammi si discosti da entrambi. Qui, infatti, egli mostra una decostruzione temporale spaesante e, di conseguenza, angosciante, a differenza di Babel, la cui la struttura è estremamente scomposta in relazione allo spazio ma non in relazione al tempo. Le linee d’azione si svolgono a distanza di mille miglia, mentre parallele all’esistente e alle vicende vissute dai personaggi, più che mischiarsi in una miriade di frammenti. Sorprendente la qualità cromatica dell’immagine, risaltata dalle splendide scenografie naturali del deserto marocchino e messicano o dallo skyline giapponese, o dal taglio quasi documentaristico sottolineato dall’uso,e non è una novità per il regista messicano, della macchina a mano. Ma chi conosce Inarritu ed ha avuto modo di vedere i suoi precedenti lavori avrà un retrogusto di deja-vù, provocato dalla sua coerenza con se stesso ed accentuato ulteriormente dal fatto che, attualmente, film drammaticamente corali, “decostruiti” e “detemporalizzati” (Memento), non sono più una novità, o almeno una prerogativa d’”autore” (come dimostra Paul Haggis o Stephen Gaghan con Syriana). Anche se, tralasciando le suddette caratteristiche, Babel con Crash ha poco a che spartire. Infatti, nell’esporre l’emotività dei protagonisti, assomiglia più a Magnolia di Paul Thomas Anderson, per come il loro conflitto interiore si esterni in piccoli gesti, in frasi sussurrate o in sguardi non corrisposti, piuttosto che a Crash. Anche se la differenza razziale presente in quest’ultimo, che poteva rappresentare la principale causa di incomunicabilità ed impraticabile solidarietà tra gli uomini (comunque smentita dal poliziotto Matt Dillon che salva la donna di colore da un auto in fiamme), torna on Babel sotto forma di una fatalità incontrollabile, che, paradossalmente, è involontariamente scatenata dall’uomo stesso alle prese con una babele di razze, lingue e religioni, spiazzanti come la stessa struttura del film.

Ma se in Magnolia tutto appariva, almeno in superficie, così dannatamente “normale”, fino a suggerire un innaturale senso di inquietudine, in Babel il dolore è gridato, manifestato con la forza di una fatalità così forte e così crudele, e soprattutto così inevitabile, da far sì che un bambino marocchino ferisca la turista americana, facendo ricadere le conseguenze sul figlio e sulla figlia (quest’ultima interpretata da Elle Fanning, sorella della più famosa Dakota). Essi si troveranno a condividere il destino di un altro personaggio, la loro governante messicana in viaggio per il Messico per assistere al matrimonio del figlio, ma in realtà in viaggio verso quel nulla assoluto, quel “nero”, che è il dolore corrisposto da una generazione universale di uomini, apparentemente divisi per razza, lingua e cultura, ma uniti nel compiere azioni e gesti “destinati” a ripercuotersi in maniera totale sull’immanità intera, proprio quella Babele di popoli citata nel titolo. Tutti e tre, figli e governante, si troveranno a vivere sulla loro pelle le bravate di un alticcio balordo, interpretato dall’attore quasi feticcio, connazionale di Inarritu, Gael Garçia Bernal (il giovane Che Guevara ne I diari della motocicletta). Guillermo Arringa scrive la sceneggiatura di Babel, dopo aver firmato quella di 21 Grammi e Amores Perros, assecondando la coerenza di forma di Inarritu, che non necessariamente può definirsi ripetitività o stagnamento stilistico bensì un percorso formativo che il regista usa per perfezionarla, a discapito però del tema del dolore universale, frutto della crudele e cinica fatalità. Un percorso come il viaggio dei due coniugi americani, che cercando la strada della vita da seguire, finiscono per imboccare quella attraverso cui tutti i destini confluiscono verso il male di vivere universale da dove tornare indietro è possibile, ma cambiati nel profondo dell’anima, sia nel bene che nel male.

Brad Pitt, in un contesto del genere, potrebbe sembrare inadeguato, ma la carica drammatica che imprime al personaggio lo rende credibile: accentuando il suo essere stretto dalla morsa non della casualità del fato, ma dalla fatalità dagli sbagli che l’uomo, inevitabilmente, compie, facendo ricadere sulle vittime le conseguenze. E’ quello “sbattito d'ali d'una farfalla che provoca un ciclone dall'altra parte del mondo” cosicché il male di un singolo si trasforma, per un destino ambiguamente stabilito o per un banale egoismo personale, in male universale. Un male che colpisce per mezzo della pallottola che ferisce, per caso, la spalla della donna americana, ma è causa di un capriccio infantile, incarnato dal bambino marocchino ansioso di verificare con il fratello la gittata del loro Winchester. Questo “sbattito d’ali” si ripercuote a migliaia di chilometri di distanza, coinvolgendo le vite dei figli della coppia e della loro governante, che, per ironia della sorte, si ritroveranno sperduti in un “deserto”, quello americano. La storia dell’adolescente sordomuta, sebbene la storia appaia distaccata dalle altre ambientandosi in un lontano Giappone, contribuisce a provocare un alone di impalpabilità e di “desertificazione” morale (la giovane in cerca più di sesso che di amore), che impediscono di comprendere chi, in realtà, abbia provocato questo meccanismo inarrestabile che erode le anime e le vite, a volte a vantaggio di alcuni ma più spesso a discapito di altri, magari più fragili. Fragili come la ragazza sordomuta che sembra l’unica in grado di sfidare il gioco spietato delle coincidenze, centralizzando se stessa e cercando di essere “fabbro del suo destino”. Ma, come nell’evocativa scena finale, ella, “denudata” di ogni cosa, si abbandona ai suoi pensieri, ad uno stato d’animo che la macchina da presa, indietreggiando, sottolinea, rivelando, come altre vite che la circondano siano alla finestra, affacciate su un mondo così uguale quanto così diverso, rinchiuse nel loro personale mondo per paura di esserne sue inconsapevoli vittime sacrificali e dove non c’è spazio per ogni segno di consolatoria spiritualità. Più che in alcune rare situazioni che da drammatiche, a causa di una inverosimiglianza troppo palese, finiscono per tradursi in grottesche, il vero difetto di Babel, che chiude la trilogia del dolore (anche se sarebbe più corretto parlare di destino), in antitesi con l’ottima interpretazione degli attori (in primis Cate “Galadriel” Blanchett, la giapponese Rinko Kikuchi e la badante messicana Adriana Barraza) è un atteggiamento ambiguo nei confronti del destino stesso, che non riesce a risolvere in pieno l’equazione causa-effetto, che le suggestive immagini, come l’inquadratura finale, la regia dinamica e semi-documentaristica, l’ottimo montaggio e l’appassionante ed originale storia, non riescono a sciogliere, soffocate dall’insistente (e francamente già trito e ritrito) intento nel rappresentare la patologica incapacità di comunicare dell’uomo. Il tutto perviene all’obbiettivo opposto: descrivere con chiarezza l’effetto della causa, ma non la causa di tutto. Che forse la verità sia scritta nel biglietto che l’adolescente sordomuta dà al poliziotto?
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