Una coppia è in attesa del primo figlio. Betta, sorella del futuro papà, è sposata con Sandro, genitori di due bambini. Tra le due coppie, c'è l'amico d'infanzia, eccentrico musicista che cerca di mantenere in equilibrio gli squilibri altrui.
Un ritorno dietro la macchina da presa in grande stile per Francesca Archibugi: la professionista romana non ha paura di “sporcarsi” le mani e porta in Italia l’adattamento della piece teatrale Le Prénom, grande successo in Francia e non solo. L’adattamento italiano mantiene piuttosto inalterata la composizione d’insieme e la storia a grandi linee, salvo qualche aggiunta (i due figli della coppia padrone di casa), ma è abilissimo nella localizzazione italiana, nella costruzione dei dialoghi, delle dinamiche d’azione e della costellazione culturale di riferimento.
In principio era la villa al mare dove sono tutti cresciuti, a stretto contatto: Paolo e Betta, figli della nobile famiglia Pontecorvo e di un padre parlamentare, e degli amici provenienti da due famiglie più umili, Sandro e Claudio. Di tempo ne è passato da allora: Sandro (Luigi Lo Cascio), pedante docente precario di filosofia, si è sposato con Betta (Valeria Golino) e hanno avuto due figli. L’altro figlio, Paolo Pontecorvo (Alessandro Gassmann), meno interessato agli studi e esemplificazione del “cafone” contemporaneo, ha un’agenzia immobiliare di successo (alla quale la madre ha impedito di associare – ed infangare – il nobile nome dei Pontecorvo) e come fidanzata Simona (Micaela Ramazzotti), una bellezza mozzafiato che la gente tratta con superficialità e sprezzo culturale, ora incinta e reduce dalla pubblicazione di un libro di successo dalle venature erotiche. A chiudere il quadretto è Claudio (Rocco Papaleo), l’altro amico d’infanzia alla magione estiva, musicista e produttore discografico, sofisticato e semplice al tempo stesso. L’invito a cena a casa di Sandro e Betta sfocerà presto nella più violenta delle carneficine, quando Paolo deciderà di fare uno scherzo e fingere di aver scelto di chiamare il nascituro bambino della compagna Simona (ancora assente alla cena) Benito, in aperta provocazione verso il pedante e politicante Sandro e verso la sorella Betta (la famiglia è antifascista ed ebrea). Ma lo scherzo viene tirato troppo per le lunghe, la fune si spezza e improvvisamente la cena diventa un banchetto per cannibali pieni di rancori, invidie e pregiudizi.
Cornice della storia Casal Palocco, poco fuori Roma, dove ormai “ci sono solo immigrati e bidelle”. L’ambientazione è bellissima, quasi magica, insediata in una sorta di casolare sopra i binari del treno, con la luce del tramonto a tinteggiare di rosso (come il sangue della nobile famiglia Pontecorvo, il sangue di una carneficina metaforica, e come il vino) il balcone, dove a breve arriverà anche Sabrina, stereotipo della “grezzona” romana, la più intuitiva fra di loro eppure guardata sempre dall’alto in basso.
Il primo ingrediente fondamentale che occorreva a un film del genere, che conserva molto della natura teatrale da cui è nato lo script e che deve confrontarsi anche col precedente adattamento d’oltralpe, è un cast di professionisti. E non si può proprio dire che si siano fatti mancare i divi: Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti, Valeria Golino, Rocco Papaleo, Alessandro Gassman. Una sfilata di nomi nostrani celebri che si confermano ottimi interpreti, su tutti spicca la Ramazzotti (anche per la capacità di riprendere alcuni celebri stereotipi della tradizione cinematografica romana per poi farli suoi e riadattarli in un personaggio vivo e nuovo: in lei c’è un misto di Claudia Cardinale e della Stefania Sandrelli di Io la conoscevo bene) e Alessandro Gassman, vero fulcro della discordia e motore principale della narrazione, che regge con classe e spontaneità. Ineccepibili Lo Cascio e la Golino, qua chiamati a impersonare i loro ritratti più usuali, e convincente Papaleo che calza a pennello i panni del musicista hipster e che si fa presto a etichettare come omosessuale (“la prugna”). Oltre a un forte cast, occorre una capacità di scrittura personale e autentica, che prende forma nel lavoro a quattro mani di Archibugi e di un mestierante di lungo corso come Francesco Piccolo. Tutto loro il merito di creare di fatto una nuova narrazione, incastrata al contesto italiano e voce di tanti demoni di oggi e di ieri (fascismo e antifascismo, la pesantezza del mondo accademico, il precariato, i raccomandati, le etichette e il cannibalismo mediatico).
L’Archibugi dirige con passo discreto ed elegante, in un silenzioso valzer attento intorno alle sue “bestie” dentro la casa piena di libri, con una regia leggera e mai troppo ingombrante che si adatta perfettamente allo stile scelto, alla commedia dalle punte molto amare. Un film lodevole e indicato per un target allargato, in grado di far ridere, riflettere e rimuginare.