Nel 1993, in una piccola e tranquilla cittadina dell’Arkansas, viene consumato un triplice omicidio a scapito di tre bambini di otto anni. I corpi vengono ritrovati poco dopo dalla polizia, nudi e legati, nascosti nelle acque di un fiume presso il cosiddetto “bosco di Robin Hood”. Dopo un mese di indagini tre adolescenti vengono accusati dell’omicidio, ma le prove sono poche e il detective privato Ron Lax sarà l’unico, in tutta città, ad essere davvero interessato alla verità.
Ispirato alle vicende dei “tre di West Memphis”, Devil’s Knot è un thriller biografico che, per dirla tutta, fatica ad essere un thriller e fatica ad essere una biografia
Il film non funziona per diversi motivi: il regista Atom Egoyan cerca disperatamente di dare un tono diverso dal solito clima da real drama e gliene va dato atto; peccato che per tre quarti di film cerchi di imitare il ben più riuscito Zodiac, di David Fincher. Non avendo le capacità estetiche e narrative del collega, Egoyan mette in scena un lungometraggio di due ore che passa da momenti di patetico onirismo ad altri più documentaristici, con lunghe didascalie per descrivere momenti già facilmente intuibili dallo spettatore.
Un altro problema del film è proprio il suo essere estremamente didascalico: ogni momento è abbinato alla sua linea di testo che descrive anno, personaggi e situazioni, come se le immagini non riuscissero a parlare da sole. Inoltre tale limite si manifesta anche sul piano delle interrelazioni tra i protagonisti della vicenda, con momenti involontariamente divertenti, che ricordano in qualche modo le avventure grafiche degli anni novanta, in cui avvicinandosi ad un qualunque oggetto il protagonista esclamava frasi come: “E’ una sedia”, “E’ una corda”, “non posso farlo!”.
Lo script è dunque piuttosto banale, con momenti evitabili e di cattivo gusto (nel senso meno positivo possibile), la regia non brilla e, per chiudere il quadro tecnico, la fotografia di Paul Sarossy rimane altalenante per tutte le due ore di film, passando da ambienti naturali descritti con molta cura, a fasi in interno che nell’insieme risultano molto grossolane e poco curate, fatto dovuto senza dubbio alla pretesa di Egoyan di girare molte, troppe scene (spesso fuori luogo e poco adatte al contesto narrativo), nel tentativo di dare più consistenza al prodotto.
A chiudere un quadro poco felice ci pensano gli attori. Se i comprimari se la cavano discretamente, pur non avendo dei personaggi particolarmente forti, i due protagonisti non riescono proprio a stare al gioco. Colin Firth è svogliato, lo si intuisce dalla prima inquadratura, forse per problemi legati al budget; di fatto l’attore britannico non risulta mai nella parte e mal si concilia con l’idea che vorrebbe far trasparire del suo personaggio. Reese Witherspoon è ancora peggio: esagera, non riesce ad essere sottile, a suggerire, ma piuttosto urla, si ridicolizza dinanzi allo spettatore risultando eccessivamente teatrale per rappresentare il dolore di una madre privata del figlio
Tuttavia alcuni momenti reggono: il ritrovo dei ragazzini, una manciata di scene in tribunale, un paio di sguardi. Momenti in cui la tensione si alza un minimo e il film sembra finalmente decollare. Purtroppo ciò non accade mai, e la pellicola rimane sempre ancorata al terreno per via dei troppi difetti ivi descritti ed i pochi pregi non bastano a farlo avvicinare alla sufficienza.