Ambientato nel 1962, sei anni dopo la celebrazione del suo “matrimonio del secolo”, il film racconta un anno della vita della principessa più celebre del XX secolo, un anno durante il quale Grace Kelly si dibatte nel tentativo di conciliare passato e presente, il desiderio di tornare ad apparire sul grande schermo e il suo nuovo ruolo di madre di due bambini, regnante su un Principato europeo e moglie del Principe Ranieri III.
Sulla fiaba di Grace Kelly, prima attrice da Oscar e musa di Hitchcock e poi regnante del Principato più inutile di sempre (perché non ammetterlo?) si è praticamente detto di tutto. Tutto l’universo creato, se vogliamo dirla tutta, è a conoscenza della sua incredibile bellezza, degli accostamenti a Cenerentola (peccato che l’eroina di Perrault non fosse figlia di un parvenu di Philadelphia, e non avesse avuto storie con Gary Cooper e Oleg Cassini), del suo talento di attrice e del suo impegno come eroina umanitaria dopo le nozze con Ranieri di Monaco.
Mancava il biopic, ed eccoci serviti: alla regia viene assoldato l’Olivier Dahan, autore del buon film biografico su Edith Piaf, mentre Nicole Kidman si destreggia a riportare sul grande schermo le indimenticabili fattezze della diva di Caccia al ladro. È grazie a lei che l’asfittica operina di Dahan non crolla dopo pochi minuti: l’attrice australiana, nonostante gli scetticismi iniziali, riesce con dignità a reggere l’intero film sulle sue spalle, e a farci dimenticare che quanto stiamo vedendo non è l’ennesima, patinata riflessione su una donna divisa tra la ragion di Stato, l’amore per il marito e i figli, e un principato spesso ostile, nonostante l’addio al glamour di Hollywood. In realtà lo è: Grace di Monaco, sebbene il tentativo - in sede di sceneggiatura – di tratteggiare i lati più umani e vulnerabili del personaggio e inserire frammenti di intrecci diplomatici, episodi realmente avvenuti (la frattura tra il principato e la Francia di de Gaulle) e parentesi di simil-spionaggio, è esangue, inerte e calligrafico.
Il regista indugia più volte sui primi piani della sua splendida protagonista, di cui inquadra con amore occhi, naso, labbra, in un atto d’amore che vorrebbe omaggiare contemporaneamente Kelly e Kidman, quest’ultima lodevole nell’avvicinarsi alla musa di Hitch con rispetto, misura e al contempo estrema personalità. È necessario, tuttavia, girarci su un film? No. E non bastano gli innumerevoli dialoghi con il prete Frank Langella su famiglia, scelte, valori e amore a rendere l'opera incisiva, o vagamente efficace. Così come non bastano le cupe ombre legate alla figura di Ranieri (un discreto Tim Roth), al centro delle molteplici polemiche sollevate dai figli della Coppia Reale poco dopo l’annuncio della preparazione della pellicola. Perché anche se ci fosse quel minimo di ambiguità sulla bella fiaba del re Grimaldi e della principessa Grace, Grace di Monaco lo spazza via chiudendo con spiazzante ecumenismo, illuminando la storia di un grande amore con gli accecanti lampi di parure e candelabri. Qui trovano spazio Maria Callas (Paz Vega) che canta il Gianni Schicchi di Puccini, luccicanti trasferte parigine da Cartier, intrighi di Corte, geopolitica da strapazzo e persino Alfred Hitchcock (Roger Ashton-Griffith) che tenta a tutti i costi di girare Marnie affidando il ruolo principale alla principessa di Monaco.
Può andar bene per la vita vera – o per qualche prodotto televisivo di bassa categoria, ma il cinema – quello fatto bene, perlomeno - è un’altra cosa.