L’eroe delle minoranze
Harvey Milk è un omosessuale che abita a New York. Convinto della necessità di dare un senso diverso alla sua vita, decide di trasferirsi a San Francisco insieme al compagno Scott (incontrato casualmente il giorno del suo quarantesimo compleanno). Qui i due aprono un piccolo negozio di fotografia e, favoriti dal clima anticonformista del loro quartiere, diventano gli attivisti di riferimento per i diritti civili dei gay. Harvey, grazie al suo carisma, diviene ben presto il leader del movimento omosessuale. Continuando la sua lotta in ambito politico, dopo alcuni insuccessi che provocano dei dissapori nel rapporto con Scott, riesce, pur essendo dichiaratamente gay, a essere eletto come Consigliere comunale della città di San Francisco. Ma la vittoria di Milk farà storcere il naso ai bigotti e ai puritani, portando a conseguenze drammatiche…
«Mi chiamo Harvey Milk e sono qui per reclutarvi tutti!»
Sgombriamo subito il terreno da qualsiasi equivoco. Milk non è un film a tematica omosessuale, che propugna la lotta per i diritti dei gay. Non è cioè, come si potrebbe pensare a una lettura superficiale, un film di propaganda. Milk è un film di Gus Van Sant. Senza chiamare in causa vecchie ideologie legate al “mito” dell’autore (vedi la politique des auteurs francese) secondo cui un film di un autore, anche se brutto, è pur sempre migliore di un buon film fatto da un semplice mestierante, nel nostro caso è comunque d’obbligo affermarne la presenza. Lo sguardo di Van Sant non vuole nascondersi sin dai primi minuti del film, quando Harvey incontra casualmente quello che sarà il suo compagno, sulle scale di uno stabile. La macchina da presa, incollata sui volti dei personaggi, attenta a cogliere le espressioni, i più piccoli gesti e le parole, fa apparire la prima sequenza come una oggettivazione dell’ “essere gettati al mondo” heideggeriano, che ci fa pensare a un’altra sequenza di dialogo famosa nella storia del cinema, quella dell’Hotel de Suede tra i due protagonisti del godardiano Fino all’ultimo respiro. (E scusate il ritorno alla politique).
Ma non è solo questa ouverture esistenzialista che ci riporta a Van Sant: anche le scene di contatto fisico tra i personaggi, tutti gay, non sono molto politically correct e si pongono certamente a distanza dallo stile raffreddato con cui vengono rappresentate di solito a Hollywood. Per non parlare, poi, della sequenza finale in cui il Supervisor frustrato e invidioso del successo di Harvey, in un impeto di follia, decide di far fuori contemporaneamente il sindaco della città George Moscone, che appoggiava le campagne di Milk, e Harvey Milk stesso. Qui sentiamo proprio il “vibrare” dell’animo del personaggio, un personaggio che ha deciso, in maniera “spietatamente” lucida, che quella sarebbe stata la soluzione più giusta da scegliere (restando, tra l’altro, quasi impunito dalla legge nella realtà). Ed è straordinaria la scena di lui disteso in mutande sul divano (nudo per l’umiliazione e nudo per la sua vigliaccheria), che sbircia fuori dalle serrande prima di andare a compiere il massacro. Solo Gus Van Sant poteva girare una scena così.
Per tutti questi motivi possiamo anche perdonargli il finale lievemente retorico, incentrato sulla “speranza” di poter cambiare il mondo, affidata alla voce registrata su nastro magnetico del protagonista, consapevole ormai di esser diventato un bersaglio. E già, perché in tutto questo non avevamo ancora accennato al fatto che l’Harvey Milk rappresentato dal regista americano è un personaggio realmente esistito, e che è diventato una leggenda agli occhi dell’opinione pubblica statunitense, per la sua generosità, il suo coraggio nella difesa dei diritti degli omosessuali e che è stato il primo politico eletto apertamente gay, ucciso appunto dopo una troppo breve carriera dal rivale “omofobo” Dan White.
A ben guardare, non è la prima volta che Van Sant si avvicina alla cronaca, (citiamo come caso tra tutti Elephant), portando sullo schermo delle storie scomode ed emblematiche di un particolare momento storico: qui sono gli anni ’70, la San Francisco hippie, che ruota attorno al “Castro Camera” – l’idea di Harvey per sbarcare il lunario, quella appunto di aprire un negozio di fotografia, insieme al compagno Scott – che rappresenterà il punto di riferimento per la comunità gay dell’intero quartiere. Ed è proprio in questo luogo che si incroceranno i destini dei protagonisti: dal marchettaro Cleve Jones (che nella realtà diverrà un esponente di punta del movimento gay) interpretato da Emile Hirsch, non riconoscibile facilmente all’inizio, all’amante “fuori di testa” di Harvey, che arriverà a suicidarsi per la poca attenzione da parte del partner, fino a Scott (un James Franco perfetto nel ruolo, molto somigliante a quello reale), primo compagno di Harvey, che rimarrà comunque molto legato a lui. E infine Harvey Milk stesso, uomo estroverso, innamorato della vita, a cui Sean Penn (qui forse nella sua migliore interpretazione) riesce a dare la giusta fragilità, stando attento alla fisiognomica e alle abitudini del personaggio realmente esistito.
Il film, insomma, che ripercorre gli ultimi otto anni della vita di Milk, mischia con mano sapiente materiale di repertorio e immagini di finzione, compiendo inoltre un’operazione originale con la vera e propria ricostruzione dei filmati d’epoca, secondo quella tecnica del found-footage che permette di riattualizzare e dare un nuovo senso a un materiale già esistente: facendo leva così sulle battaglie e le vittorie di Harvey Milk, che hanno cambiato inesorabilmente la nostra cultura e il modo di fare politica di oggi.
Infine ci sembra giusto concludere, come Van Sant, con le parole di Milk, il quale ha affermato: «Se una pallottola dovesse entrarmi nel cervello, possa questa infrangere le porte di repressione dietro le quali si nascondono i gay nel Paese».
INTERVISTA AL REGISTA GUS VAN SANT E ALLO SCENEGGIATORE DUSTIN LANCE BLACK
Che rapporto c’è tra la figura di Milk e quella di Obama?
Van Sant: Penso che entrambi rappresentano in qualche modo le minoranze ed hanno delle posizioni molto simili in questo. Diciamo poi che ci sono sia similitudini che differenze. Una delle similitudini riguarda, ad esempio, il tipo di campagna che i due hanno condotto, il fatto di fare della speranza l’elemento centrale delle loro campagne elettorali.
Black: Obama ha fatto rinascere un tipo di politica più populista, rivolta a gruppi e minoranze di diverso tipo, come gli anziani, i lavoratori, che per la prima volta si sono riuniti tutti nel dargli appoggio. E questo non succedeva da molto tempo, dagli anni ’70, cioè dai tempi di Milk appunto. Questa è la somiglianza principale secondo me, anche quando vai a vedere i gruppi di elettori a cui si rivolge Obama. Sono, in fondo, gli stessi elettori a cui si rivolgeva Milk.
Può dirci com’è arrivato all’idea di portare sullo schermo la vicenda di Harvey Milk?
Van Sant: La vicenda di Harvey era una cosa che avevo in mente da moltissimo tempo. Per la prima volta ho sentito parlare di lui nel momento in cui è stato ucciso. All’epoca, negli anni ’70, io non ero ancora venuto allo scoperto come gay, né ero molto attivo nell’ambito politico. Forse se avessi letto di più nei giornali, senz’altro avrei sentito parlare di Harvey come del primo politico dichiaratamente gay, ma non l’ho fatto. Poi nel 1984 ho visto un documentario che era stato fatto su di lui e circa 6, 7 anni dopo ho sentito parlare di un progetto a cui stava lavorando Oliver Stone, che però poi non è andato in porto, e, quindi, all’epoca cercavano un regista che lo sostituisse. Anch’ io nel ’92 stavo lavorando ad una sceneggiatura che poi non ha funzionato; sono passati diversi anni e alla fine ci siamo ritrovati con questa sceneggiatura che era più o meno uguale.
Il film racconta la storia di Harvey Milk in modo molto tradizionale, fedele alla struttura classica del biopic. Avete fatto formalmente lo stesso processo che ha fatto Milk nella politica, cioè quando al secondo tentativo è stato costretto a mettersi il vestito buono?
Van Sant: Si, io mi sono attenuto alla sceneggiatura quindi sarebbe meglio far parlare lo sceneggiatore. Comunque, dal punto di vista stilistico noi avevamo creato inizialmente uno stile estremo, che poi non ha funzionato e così ci siamo rifatti a forme più tradizionali. All’inizio avevamo pensato anche a una forma di documentario, che però non portava da nessuna parte e quindi abbiamo optato per una presentazione più semplice.
Black: Crescendo negli Stati Uniti, tu vedi nei negozi e nelle librerie questi libri che parlano degli eroi americani, che sono molto tradizionali, raccontano il viaggio dell’eroe. Così ho pensato che la cosa più rivoluzionaria per raccontare la vita di un gay, fosse proprio optare per una forma tradizionale, dal momento che un gay non è mai stato considerato un eroe in America.
Guardando il film si ha l’impressione che non si voglia raccontare solo la vita di un gay ma anche quella di un politico, che prende come base valori di sinistra come la solidarietà sociale, ecc. Possiamo dire quindi che la sua forza non è solo il fatto di essere gay? E poi, è giusto parlare di un’identificazione tra Harvey Milk e Gus Van Sant?
Van Sant: Io ho sempre avuto questo problema con lo stile, nel senso che molti dei miei film possono essere visti come più commerciali di altri. Penso che a volte si riesce a fare qualcosa di nuovo, pur rimanendo dentro il mainstream. Altre volte invece no. Questa sceneggiatura, come vi dicevo, è molto tradizionale e quindi a prescindere da quello che avremmo potuto fare dal punto di vista stilistico, non ho mai pensato di tradire la struttura dello script. L’obiettivo era quello di fare un film che fosse più facile, anche per un pubblico eterosessuale. Non era mia intenzione fare un film difficile, alla Derek Jarman. Per quanto riguarda il suo aspetto politico, diciamo che era una tendenza che veniva un po’ dagli anni ’60: lui inizia come repubblicano, poi passa a una posizione anti-bellica in Vietnam, bruciando anche la sua tessera di leva. Lui era stato in Marina, quindi aveva fatto già un’esperienza militare. Dopo aver deciso di lasciare, si taglia i capelli e, anche se era già gay, aveva comunque un attaccamento ai suoi genitori e fino a quel momento non aveva detto ancora niente a nessuno; poi a un certo punto cambia completamente e questo avviene quando decide di trasferirsi da New York a San Francisco, che è un cambiamento enorme ovviamente. Anch’io quando avevo 16 anni vivevo a New York, poi sono andato a San Francisco. Lì c’era quest’atmosfera hippie, la gente veniva da tutte le parti perché era considerata un po’ la terra della promessa. Magari poi queste promesse non avevano un effettivo riscontro, però questo era un po’ il sogno giovanile come anche l’idea di cercare la pace tra i popoli o avere nuove idee sulla politica. Harvey era un politico attento soprattutto alle questioni locali, agli anziani, in generale a tutte le classi più deboli, le minoranze. A differenza di altri politici gay, il successo che lo ha contraddistinto è dovuto alla sua grande capacità di eseguire, di agire; sapeva ad esempio che la campagna gay non sarebbe andata avanti senza l’appoggio degli anziani, dei sindacati e comunque credeva fortemente in tutte le cose che propugnava.
Come si è trovato a lavorare con un personaggio come Harvey Milk così diverso da quelli dei suoi ultimi film, in cui avevamo visto figure che appartenevano al mondo del disagio giovanile, portate sullo schermo senza tanti dialoghi o azione?
Van Sant: Beh, diciamo che ci sono dei mieli film in cui c’è anche molto dialogo, scene di massa, ecc.: per esempio in Drugstore Cowboy il personaggio di Matt Dillon fa molti monologhi, e anche Will hunting è un film molto dialogato. Certo, se prendiamo Elephant questi aspetti vengono meno, perché lì gli attori inventavano sul momento quello che dicevano e la scrittura riguardava solo la mappa dei loro spostamenti. Dunque diciamo che ci sono delle scene diverse in Milk, in cui i dialoghi servono a rivelare il suo personaggio, però per me questa non è una novità.
Il carattere gioioso di Milk fa parte della storia reale oppure è una scelta artistica? E poi, qual è stato il rapporto con Sean Penn nella caratterizzazione del personaggio?
Van Sant: La cosa che più mi ha entusiasmato è stata quella di lavorare con la diversità sia di Harvey Milk che di Sean Penn. Forse Harvey era più divertente, più aperto, anche più leggero, oltre al fatto di essere molto gay, a differenza di Sean che ovviamente non lo è. Devo dire che Sean è una persona divertente quando la conosci, però non è poi così leggero. Abbiamo visto anche dei filmati di quando Sean aveva fatto dei discorsi contro la guerra nel 2002: sono dei discorsi infuocati, dove fa molte battute e questo è molto simile ai discorsi di Harvey. Poi Sean ha anche una facilità di conversazione con le persone intorno a lui, è interessato a quello che succede e questa era anche una caratteristica di Harvey. Diciamo che Sean è diventato Milk gradualmente durante il lavoro del set.