Fantastoria senza capo né coda…
Kainan (James “Jim” Caviezel) atterra con la sua nave spaziale nella Norvegia del 709 d.C., ma non sa che con sé viaggia anche il temibile Moorwen, ultimo sopravvissuto della stirpe dei draghi. Vagando per le lande, trova un villaggio distrutto dal mostro e viene catturato da Wulfric (Jack Houston) che lo ritiene responsabile della devastazione e lo porta dal suo re, Rothgar (John Hurt). Qui viene curato da Freya (Sophia Myles), figlia del re, e dovrà vincere la diffidenza vichinga e spiegare il pericolo che il villaggio di Herot sta correndo contro la minacciosa creatura…
… tra vichinghi, navicelle spaziali e draghi feroci!
Ancora una volta, nonostante la partecipazione dei “produttori de Il signore degli anelli”, nello specifico Barrie Osbourne e Dan Hannah, bisogna registrare un’operazione di mercato scadente, il cui unico alibi è di essere un prodotto indipendente a budget limitato. Intuendo, però, lo spreco di denaro di post-produzione per la creazione digitale del Moorwen (presente in ben 600 scene effettive) e la ricostruzione minuziosa dell’accampamento vichingo, viene da pensare che l’alibi potrebbe anche non valere più di tanto.
Outlander – L’ultimo vichingo, opera prima alla regia di Howard McCain, parte già da un’idea poco felice, con una commistione discutibile di generi e epoche. Dal punto di vista registico, molte delle soluzioni proposte finiscono per sminuire il lavoro di immedesimazione degli attori. Le pause di scena vengono tradotte, in senso filmico, attraverso delle grandi vedute aeree sul villaggio di Herot o sulle coste norvegesi (o canadesi, visto che la location è Halifax, in Nuova Scozia).
La sceneggiatura, al pari della regia, vive di soluzioni comode e alcune trovate, create appositamente per instaurare un legame empatico tra spettatore e protagonista, non sono supportate dall’intera vicenda che finiscono per risultare poco credibili e di scarsa efficacia. Cadono così nel ridicolo sia il legame del protagonista Kainan con la moglie morta, sia la storia dell'invasione della terra dei Moorwen, momento in cui Jim Caviezel tradisce alcuni limiti di interpretazione (evidentemente non per colpa sua).
Scomodando un paragone quasi improponibile, si potrebbe accostare la storia e alcuni elementi di essa a The host, film del 2006 del sudcoreano Bong Joon-ho (già ampiamente saccheggiato dal riuscito Cloverfield): la somiglianza tra i mostri è evidente, così come il tentativo di giustificarne la vendetta nei confronti della razza umana; la tana del drago, cioè la cava in cui porta le sue vittime vive o morte che siano, è posta in un luogo segreto e vagamente inaccessibile; non ultima, l’idea di una creatura invadente che compare dal nulla e prende possesso di una zona attraverso la devastazione e decimazione del nemico (da un’affollata città fluviale moderna, a una radura norvegese del ottavo secolo). Ma al di là di queste sovrapposizioni, Outlander – L’ultimo vichingo non presenta nulla della bellezza e dell’efficacia visiva della pellicola asiatica.
Gli attori impiegati farebbero pensare ad un buon prodotto, ma nonostante la bravura messa in campo da Jim Caviezel (La passione di Cristo e Highwaymen), Jack Houston (Factory girl), John Hurt (oltre cento film in carriera, tra cui il primo Alien) e la bellissima Sophia Myles (già vista nei primi due Underworld), non possono prescindere da una sceneggiatura che li catapulta in un mondo farsesco condito di elementi e situazioni al limite del ridicolo. Da menzionare anche Ron Perelman (indimenticabile il suo Salvatore ne Il nome della rosa), sempre più spesso identificato con le produzioni indipendenti, spesso anche poco considerate, d’oltreoceano.
In definitiva, un film senza capo né coda (almeno se non consideriamo il drago!), nato da un’idea fantascientifica i cui elementi cozzano inesorabilmente tra loro creando una grande confusione di intenti e di soluzioni a cui lo spettatore non può far altro che assistere annoiato.