La parabola del bello
Il giovane Dorian, appena ritornato a Londra, conosce il cinico Henry Wotton che diventa il suo mentore. Nella città Vittoriana, costui lo inizia a una vita dedita al piacere e agli eccessi, senza preoccuparsi di ciò che sta creando. Dorian – all’inizio sperduto – a mano a mano infatti si plasma con le parole di Henry e ne diventa il peggiore risultato. Le donne, l’alcol e le feste però non sembrano lasciare traccia sul volto perfetto e apparentemente eterno di Dorian, la cui bellezza nota a tutti rimane inalterata per anni. Se l’esteriorità è intatta, l’anima del ragazzo è corrosa: sarà il suo ritratto a dircelo.
Parola chiave: la (in)visibilità dello sguardo
“Tutta l’arte è completamente inutile”. Così chiudeva Oscar Wilde la prefazione al suo capolavoro del 1891 di cui questo film è l’undicesima trasposizione, tra cinema e tv. Il ritratto di Dorian Gray è più di un libro: è un manifesto sulla funzione dell’arte, sul valore della bellezza e sul come giudicarla. È evidente come sia difficile rendere in due ore di pellicola concetti così complessi e infatti il regista Oliver Parker – alla sua terza pellicola “wildiana” dopo le commedie Un marito ideale (1999) e L’ importanza di chiamarsi Ernesto (2002) – sceglie di spogliarsene in parte per dare spazio ad una trama virata maggiormente all’horror. Gli effetti speciali, la fotografia scura e il tappeto sonoro pessimista creato da Charlie Mole (i violini vengono usati solo per anticipare e far vivere l’angoscia, mai per un componimento d’amore, sebbene Dorian si innamori due volte) fanno il resto.
Il punto focale rimane comunque la storia, che si sposta tra due binari: la visibilità e ciò che i latini chiamavano l’obsceno, ovvero quello che in scena non si vede, ma che comunque è presente. Stiamo parlando del ritratto di Dorian, che viene spesso evocato, nominato, richiamato attraverso dei suoni distorti e che tuttavia è sempre lì, a ricordare al giovane e agli spettatori quella parte più invisibile dell’uomo: l’immagine della sua anima. È proprio il quadro – una manifestazione perfetta della visibilità e dell’eternità dell’arte - che svela la decomposizione di ciò che è incomprensibile e nascosto, attraverso però il suo opposto: l’assenza dei segni del tempo dal viso di Dorian. Il tempo, che lascia segni sulla pelle umana, su Dorian non si vede. Lo sguardo e l’immagine, il visibile e il non visibile: elementi su cui il cinema nella sua totalità si interroga da sempre.
L’immagine del giovane protagonista – ricordiamolo, Ben Barnes, già visto ne Le cronache di Narnia: il principe Caspian (2008) – viene declinata in continuazione: nel riflesso del portasigarette, negli occhi di chi lo ammira, nello sguardo – appunto – di Henry. Solo il pittore Basil che lo dipinge sembra però capirne veramente gli effetti; mentre realizza il quadro infatti dice a Dorian: «più guardo più vedo», quasi a voler preannunciare quanto l’inconfutabilità della visione sia ingannatrice rispetto a ciò che non c’è, ma che è molto più vero. A ciò si aggiunge che Emily, la figlia di Henry, è una fotografa. Dalla fotografia - arte che, non a caso, si diceva rubasse l’anima del soggetto fotografato – deriva, ancora una volta, il cinema. Gli elementi insomma ci sono tutti, manca volutamente un pensiero su di essi.
L’immagine cinematografica da sola infatti non basta, e forse con i dialoghi bisognava lavorare ancora un po’, visto che Colin Firth nel ruolo di Henry sembra a volte un bigino degli aforismi di Wilde.
Una bella confezione
Nonostante il film non si proponga, come già detto, di riflettere sui temi sollevati da Wilde, la decisione di privilegiare i risvolti dark penalizza il risultato, che comunque rimane – almeno esteticamente - ben confezionato.
Il film si può vedere, le due ore passano velocemente e gli effetti speciali sono così curati da ottenere dei bei momenti di suspance. Sconsigliato a chi è facilmente impressionabile.