«Unless you love, your life will flash by»
Esistono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia, e Jack le sente lottare dentro di sé. La sua infanzia, come primogenito di una famiglia del Midwest negli anni Cinquanta, ha attraversato fasi alterne, divisa fra l'educazione rude del padre e l'affettuosa dolcezza della madre, senza mai trovare un accordo fra i due impulsi.
Ma forse, alla fine dei tempi, ci sarà equilibrio...
«Guide us, to the end of time»
Nell'arduo compito di definire cos'è The Tree of Life, si rivela paradossalmente più semplice definire ciò che non è. Perché il film di Terrence Malick brilla come un'opera d'arte totale - nel senso wagneriano del termine: Gesamtkunstwerk - e l'integrazione di differenti forme espressive confluisce in un viaggio metafisico di fronte al quale, più che semplici spettatori, noi siamo soggetti della visione, assorbiti da una sinfonia d'immagini che squarciano il fragile velo dello spazio-tempo, proiettandosi oltre.
È un film che ti scorre addosso come un fiume, The Tree of Life. Leviga le nostre membra come i ciottoli sul suo fondale, e consuma in sé l'intero ciclo della vita, la cui essenza Malick individua nelle ferite di un inconciliabile scontro dualistico: Natura e Grazia, Ares e Afrodite, Marte e Venere, l'uomo e la donna, forze contrastanti - eppure reciprocamente indispensabili - in lotta per l'anima della propria specie, affannate nella trasmissione generazionale del proprio lascito ereditario. Così, la micro-storia del conflitto che si agita nella mente e nel corpo di Jack, pur essendo solo un caso fra mille, riassume tutta la macro-storia del cosmo, fatta di genesi e distruzione, crescita e deperimento. È questa la via attraverso cui Malick indaga il trascendente: una "piccola" vicenda umana che si fa universale, un saggio filosofico che predilige la potenza delle visioni al didascalismo della narrazione verbale. Le parole, qui, sono un puro strumento evocativo, un coro sussurrato a più voci (come spesso nel suo cinema) che si dissolve nello sconfinato lirismo delle immagini, contrappuntate da una colonna sonora che unisce brani originali di Alexandre Desplat e composizioni di Tavernor, Preisner, Berlioz e Smetana, per lo più requiem. E la scelta non è casuale, ovviamente.
Se l'arte di Malick non ha metri di paragone - al punto da divenire essa stessa il proprio unico metro di paragone - è perché cerca la sua chiave rappresentativa nel Bello, nell'attenzione ossessiva ai dettagli e in una messa in scena di carattere etereo, volta a riprodurre i meccanismi immaginativi della psiche; gli spazi immensi diventano territori della memoria, il fantastico ha lo stesso valore figurativo dell'animazione astratta, mentre la macchina da presa resta incollata alle spalle dei personaggi, cavalcando la scia dei loro passi e dei loro turbamenti emotivi. Si percepisce una linfa emozionale forte, fortissima, che scorre dalle radici alle fronde di questo "Albero della Vita": Malick vi celebra l'eterno femminino (la Grazia), ovvero l'amore che tutto accoglie, senza il quale «la vita passerà in un lampo». È di amore che si nutre questo poema cosmico, ed è l'amore che permette a Jack e agli altri di valicare i confini del tempo, fino a un piano di realtà dove i concetti di vita e di morte, di "prima" e "dopo", di "giovane" e "vecchio", saranno solo il lontano ricordo di un'esistenza passata, e non avranno più alcuna ragion d'essere.
Capolavoro.