In attesa della fine
Una limousine bianca, che scorta al proprio interno una coppia di sposi, Justine e Michael, arranca lungo il sentiero che conduce al castello dove una folta schiera di invitati attende per i festeggiamenti. Due eventi caratterizzano il proseguire del ricevimento nuziale: l’apparire di una stella sconosciuta nel firmamento e l’insorgere di una serie di conflitti familiari, che in una inesorabile parabola discendete ridurranno in frantumi le prospettive di vita comune dei novelli coniugi. Tempo dopo Justine, affetta da una grave forma depressiva, si trasferisce da sua sorella Claire nella speranza di riaversi, ma il pianeta Melancholia che si appresta a sfiorare la Terra in uno dei più straordinari eventi astrali mai visti, pare avere su di lei l’influenza contraria…
Fanta(Co)scienza Von Trieriana
Scindere l’autore dall’opera. Fu questo il provvedimento assunto dall’organizzazione della scorsa edizione del Festival di Cannes, quale reazione alle dichiarazioni antisemite proferite dal regista Lars Von Trier, immediatamente espulso dalla kermesse, mentre il suo Melancholia, ancora in concorso, conduceva una delle protagoniste, Kirsten Dunst, alla premiazione per la miglior interpretazione femminile. Quale paradosso per un film come questo, espressione spiccatamente autoreferenziale del proprio autore! Von Trier, seguendo il solco della propria peculiare cinematografia, protrae anche in quest’ultima opera l’evoluzione concettuale di un incombente pessimismo cosmico, nonché il personale percorso psicoanalitico contro la depressione che lo ha attanagliato. Ma Melancholia è molto di più per il regista danese: è la bella copia, la versione affinata e raffinata della propria interiorità.
Melancholia, infatti, non può che essere letto inscindibilmente da Antichrist, sia per ciò che li accomuna sia per ciò che li separa. Mantenendo l’impostazione del “cinema fusionale” (commistione di letteratura, musica, pittura) resa ancora una volta dall’emblematica ouverture lirica iniziale, scandita dall’estremo low motion che rasenta il fermo immagine, nonché dalla divisione in capitoli dell’azione, il regista capovolge il lapidario assioma che dominava nell’efferato Antichrist, «Il caos regna», per continuare a valicare i limiti del sentire umano imboccando però il passaggio verso l’ordine e l’eleganza. Dall’Eden selvaggio e impervio di Antichrist alla tenuta silvestre di un castello svedese in cui si estende un campo da golf con ben 19 buche. In questo sontuoso scenario, dove al contrario regna la precisione e il controllo di ogni particolare, il regista colloca il microcosmo umano dal quale sviscerare le inquietudini più recondite. La famiglia delle due protagoniste, Claire (Charlotte Gainsbourg) e Justine (Kirsten Dunst), si riunisce per festeggiare il matrimonio di quest’ultima, ma proprio all’interno delle dinamiche convenzionali di questo solenne rituale volto a suggellare il gioco delle parti (amanti, genitori, figli e fratelli) le maschere di comodo e circostanza volutamente indossate o imposte decadono inesorabilmente, rivelando gli schieramenti netti tra coloro che ancora investono di significato il proprio agire, coloro che ormai da tempo hanno abdicato a tale compito rifugiandosi nell’indifferenza cinica o demenziale, e infine coloro che cedono all’apatia e alla depressione. Tra questi, Von Trier da un lato mantiene la propria tradizionale distinzione di genere per cui gli uomini incarnano il calcolo razionale e le donne l’impulsività incoerente, dall’altro introduce uno sdoppiamento di sentimenti tra le figure delle due sorelle, ponendole in un reciproco rapporto dialogico. L’autore, che probabilmente ha superato la fase più buia della patologia depressiva, risale dall’abisso sanguinario di Antichrist e se ne astrae dandole l’aspetto della protagonista Justine (totalmente succube del suo mal di vivere), e al contempo le si pone di fianco assumendo le sembianze della sorella Claire (madre, moglie e amministratrice del castello) per interpellarla. L’occasione del confronto estremo sarà appunto il paventarsi della catastrofe cosmica dovuta alla collisione spaziale tra la Terra e il pianeta Melancholia. Claire, che in un primo momento si sforza di infondere vitalità nella sorella debilitata e afflitta, d’un tratto si ritroverà a sua volta smarrita e paralizzata dinanzi al timore della distruzione materiale, mentre Justine, che dalla vita quotidiana aveva già preso le distanze, si appresterà all’attesa della fine con inaspettata lucidità. La metafora astronomica che sottende il film rinforza ulteriormente per via trasversale la connessione tra le ultime due opere del regista. Se Antichrist terminava infatti con una esplicita dedica al maestro Andrej Tarkovskij, Melancholia affatto implicitamente allude al noto film del regista russo Solaris. Non solo perché in Melancholia, come in Solaris, l’inesorabile approssimarsi a un pianeta sconosciuto sconvolge ogni tipo di certezza, da quelle meramente scientifiche a quelle private, scatenando l’irrompere di latenti conflitti interiori, ma soprattutto per il monito che il film del 1972 interpreta, ovvero l’opportunità per l’uomo, che ancora non giunge a conoscere appieno se stesso, di frugare nell’universo ignoto (si noti il climax costruito attorno alla perenne osservazione e misurazione del pianeta blu) obbligandolo invece a una costante indagine introspettiva. Rinnegata la scienza come conoscenza incontrovertibile (non a caso Von Trier la condanna a un vigliacco suicidio attraverso il personaggio di John), all’uomo non resta altro strumento d’indagine che l’arte irrazionale e intuitiva, rivelazione del mondo (bellezza e orrore) nel solo istante della percezione dell’immagine. Una serie di celebri dipinti si susseguono infatti in uno dei raptus di sofferenza che travolgono Justin lontano dai festeggiamenti matrimoniali. In particolare, due fra questi segnano sin dal prologo il culmine dell’intensa simbologia Von Trieriana: se Justine trasfigura nell’Ophelia di Millais, in cui riflette la consapevolezza del passaggio dalla vita alla morte, nel momento della catastrofe annunciata l’umanità intera si identifica nel dipinto di Brueghel Il Vecchio Il ritorno dei cacciatori, che, connotato da un forte sentimentalismo naturalistico, era stato oggetto di una elegiaca sequenza nel già citato Solaris. L’ultima sublime immagine (in senso romantico di fusione tra fascinazione e sgomento) sul finale di Melancholia è proprio l’invito a non abdicare mai all’illusione dell’immaginazione salvifica, per quanto insanabile illusione.