Questa era casa mia.
Agostino e Anna vivono nei palazzoni della periferia romana con la figlia adolescente, Erica, il piccolo Lorenzo e il rumoroso nonno Rocco. Tuttavia, un giorno che dovrebbe essere di festa si tramuta in disavventura: di ritorno dalla comunione di Lorenzo, tutta la famiglia al completo si reca nell'appartamento per un parco rinfresco a base di pastarelle e rustici, ma, colpo di scena, trova la porta chiusa, la serratura cambiata e un’altra famiglia abusiva all’interno, “i Rizzuti”, mezzi napoletani. Incomincia così una guerra per il diritto alla casa, diritto inalienabile dell’uomo; lotta tragicomica in cui tutto è permesso, perfino accamparsi sul pianerottolo rendendosi conto che non ci si può proprio fidare di nessuno.
Una realtà che pare fantasia
È possibile ritrovarsi senza casa? Ebbene sì, la sceneggiatura di Tutti contro tutti sembra una storia originale e controversa, impensabile, e invece non è mica poi tanto strano, e nemmeno fantasioso: un reato sempre più diffuso in Italia, l’occupazione illegittima di domicilio, di fronte al quale si può anche rimanere inermi. Tratto da una storia vera, rappresenta l’esordio alla regia di Rolando Ravello (che interpreta Agostino, il capofamiglia), noto attore televisivo e cinematografico nostrano, vedi Il Pirata (sulla vita del ciclista Marco Pantani) o Terapia d’urto di Giorgio Faletti. La pellicola è tratta da un precedente lavoro teatrale dal titolo Agostino e dal documentario Via Volontè numero 9, di cui lo stesso Ravello, oltre che attore, è anche sceneggiatore e ideatore. Film genuino e sincero, spazia dall’umorismo al dramma, e non manca neanche qualche lacrimuccia per la dolcezza del figlio più piccolo portatore dei più bei valori del film.
La casa non è solo un muro, ma simbolo di stabilità, un nido, creata da chi ci abita e dalle relazioni che si formano, dalle piccole abitudini, il tepore: la mamma in cucina, il papà che vede la partita sul divano della sala e la sorella che si trucca nel bagno. Il film di Ravello ci parla di un’Italia cosmopolita in cui ritroviamo bengalesi, egiziani, romani, napoletani, africani che vivono insieme nello stesso stabile, e che fanno parte tutti della classe dei nuovi poveri – classe che in periodo di crisi è sempre più in aumento e della quale chiunque può entrare a fare parte. Tuttavia è anche una pellicola di denuncia, sono infatti presenti temi forti come il razzismo (con l’incendio al campo rom), il bullismo tra adolescenti, e la sfiducia nella chiesa cattolica che ci dice solo di pregare e porgere l’altra guancia: questo avviene comunque con toni garbati che non risultano affatto pesanti, un po’ come fosse una favola.
A conferire ancor di più questo senso alla narrazione sono i Rizzuti, gli abusivi che occupano l’appartamento, un bell’esempio di acusmetro: non li vediamo ma ne sentiamo la voce, le urla, il turpiloquio e la musica a tutto volume (soltanto alla fine daremo un volto a due dei membri di questa famiglia di impostori), in modo da incuriosirci e pensarli come imponenti e cattivi, come avveniva per Il mago di Oz, ma in realtà si riveleranno solo dei poveri disperati.
Nel 2012 già Maurizio Ponzi ci aveva parlato di casa e precarietà (Ci vediamo a casa), ma sicuramente con una resa inferiore; qui i personaggi non sono macchiette ma persone vere, con una grande dignità anche nello sconforto. I meglio riusciti sicuramente si ravvisano nel nonno Rocco, interpretato da Stefano Altieri, un simpatico vecchietto schietto che non ci risparmia ironia e parolacce, e i panchinari perdigiorno, coro popolare e divertente, con il compito di commentare ciò che accade senza mai scomporsi e intervenire tranne che nel finale. Piacevole anche la colonna sonora firmata da Alessandro Mannarino e Tony Brundo, dalle tinte gitane e balcaniche, che accompagna lo sviluppo della vicenda per la periferia Romana ad hoc.