«Mi piacciono le grandi feste. Sono così intime. Nelle feste piccole non c'è intimità.»
Primavera del 1922. Nick Carraway (Tobey Maguire), aspirante scrittore, si trasferisce a New York per lavorare nella finanza, e prende in affitto una casa a West Egg, località che si affaccia sullo stretto di Long Island. Il suo giardino confina con quello, maestoso, di Jay Gatsby (Leonardo Di Caprio), uomo dal passato enigmatico che ha accumulato grandi ricchezze. Sulla costa opposta dello stretto, esattamente di fronte alle case di Gatsby e Nick, vive la cugina di quest'ultimo, Daisy (Carey Mulligan), insieme a suo marito Tom Buchanan (Joel Edgerton), vecchio amico e compagno di studi di Nick. In visita da loro, Nick conosce Jordan Baker (Elizabeth Debicki), golfista spigliata e affascinante, che Daisy vorrebbe spingere tra le sue braccia.
Jordan è un'assidua frequentatrice delle grandi feste che Gatsby organizza nella sua magione, ed è proprio durante una di esse, alla quale è stato invitato anche Nick, che la ragazza scopre la verità: Gatsby ha bisogno dell'aiuto di Nick per avvicinarsi a Daisy, suo grande amore mai dimenticato...
"Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato."
È un melodramma fiammeggiante e vorticoso quello plasmato dalle mani di Baz Luhrmann, e non c'è da stupirsi che, attraverso gli occhi di un regista grezzo ed eccessivo come lui, l'Età del Jazz di Fitzgerald divenga l'Età dell'Hip Hop, e Il grande Gatsby perda almeno alcune delle sue sfumature narrative.
Cronaca di un'epoca decadente, avviata sui binari dell'autodistruzione (la crisi del '29) come un treno che corre verso un ponte interrotto, la storia impossibile di Gatsby e Daisy viene semplificata, forse banalizzata da Luhrmann per valorizzarne i vertici melodrammatici, a scapito della visione d'insieme, confusa e diluita nel vortice edonistico delle feste, della licenziosità e dello sfarzo inusitato. Luhrmann è certamente abilissimo a ritrarre lo sfavillante dispendio di energie, denaro e tempo della classe egemone, apertamente razzista e reazionaria, che tratta la città come un parco giochi e poi si ritira nel bianco abbacinante delle proprie torri d'avorio, ma non possiede la grazia necessaria a delinearne i risvolti emotivi; inevitabile, allora, che il rapporto tra Gatsby e Nick ne risulti appiattito, o che lo scenario storico-culturale alle loro spalle resti, nella maggior parte dei casi, solo un fondale animato, scintillante di colori primari e grafica computerizzata.
In ogni caso, la ricontestualizzazione musicale operata dal regista - non così diversa da quella di Moulin Rouge! - è talmente insistita da risultare debordante, e le soluzioni formali rispecchiano il medesimo approccio: non si può negare, insomma, che la rilettura di Luhrmann abbia un suo fascino ammaliante e peccaminoso, anche quando tradisce l'eleganza del romanzo con la sonorità truce e martellante della musica elettronica, o quando la macchina da presa azzarda inquadrature o spostamenti vertiginosi sui cieli di New York, fra le auto impegnate in folli sorpassi e tra i corpi pulsanti degli invitati di Gatsby. Il 3D, in tal senso, non serve a riprodurre la spazialità teatrale degli attori in scena (e infatti è quasi impalpabile nelle sequenze al chiuso), bensì a spettacolarizzare i panorami e i virtuosismi registici, proiettando il nostro sguardo in profondità.
Esaurite e sfogate le ambizioni spettacolari, è nell'epilogo che Il grande Gatsby recupera malinconia e spessore emotivo: qui, tra i ricordi di Nick e la ben nota sorte di Gatsby, entrambi i personaggi assumono in pieno il loro status di "stranieri in terra straniera", baluardi di umanità in un mondo barbaro. In particolare Gatsby, con la sua incrollabile speranza, il suo romanticismo sincero e disperato, la sua solitudine irrimediabile, prende le fattezze dell'eroe tragico, e attira su di sé un doveroso senso di empatia, persino di tenerezza. Di Caprio è ovviamente strepitoso nel riprodurre sia l'intimo tormento del protagonista sia la maschera di rispettabilità e apparente equilibrio che è costretto a indossare nei rapporti sociali, dietro a cui si cela una natura genuina, fragile, che guarda al passato come se quello potesse magicamente tornare, mutando in un futuro radioso. Peccato che attorno a lui non ci sia un sistema di valori disposto ad assecondarlo.
Davvero ispirato è anche il resto del cast: ogni personaggio calza accuratamente sul volto e sul corpo del suo interprete, dall'ambigua innocenza di Daisy/Carey Mulligan alla spigolosità sfuggente di Jordan/Elizabeth Debicki, dall'estraniata mitezza di Nick/Tobey Maguire al rude tradizionalismo di Tom/Joel Edgerton, passando per la volgarità ostentata di Mirtle/Isla Fisher.
Pur con i suoi limiti, merita la visione.