Liberamente ispirato a Il vedovo di Dino Risi, Aspirante vedovo di Massimo Venier non riesce a emulare l'originale, pur contando su un'eccellente protagonista e uno script cattivello ma inerte.
L'elemento più irritante che circola attorno ad Aspirante vedovo, nuova fatica di Massimo Venier liberamente ispirata a Il vedovo di Dino Risi, non è tanto quella – onestamente un po' inusuale, nel nostro cinema – di voler girare il remake di una pellicola di culto («Ma che fa, marchese, spinge?»), quanto la tendenza di certa critica nostrana a innalzare altari votivi a Dino Risi che, poco prima di lasciarci, dimenticato dai più a causa delle ultime opere girate, non era più rispettato da nessuno (e parliamo dell'autore de Il sorpasso e di Una vita difficile, giusto per citare due titoli fra tanti).
Di conseguenza, non si può che guardare al film di Venier per quello che è: una rivisitazione contemporanea delle tragicomiche vicende dell'imprenditore edile Alberto Nardi (Fabio De Luigi) alle prese con una moglie petulante, ricchissima e influente (Luciana Littizzetto) e ai tentativi di farla fuori per intascare eredità, villone e dignità perduta.
Va da sé: l'ormai inflazionatissimo Fabio De Luigi non ha un briciolo della potenza espressiva di Alberto Sordi, ma Luciana Littizzetto – pur trovandosi anch'ella lontana mille miglia dal genio comico di Franca Valeri – sorprende e funziona; il personaggio dell'antipatica signora Almiraghi è ovviamente diverso da quello originale (a partire dal nome di battesimo), ma il lavoro della Littizzetto ben si presta ai contesti contemporanei: l'attrice offre una performance godibile, libera e divertita – forse la migliore della sua carriera cinematografica.
Questo Aspirante vedovo, seppur mediocre e vagamente piatto, resta comunque una spanna sopra a molti altri inqualificabili prodotti del genere, grazie a una sceneggiatura che non scivola mai nella retorica e nelle becerate melense che stravolgerebbero le dinamiche di trama e personaggi; sorprende soprattutto una sottile vena di cattiveria del tutto estranea alla nostra (nuova) commedia, e che collega il film di Venier direttamente a quello di Risi, stabilite chiaramente le dovute proporzioni tra i due. E nonostante qualche cedimento dalla fattura un po' furbetta – ormai il cinema crede che piazzando in campo un prete sui generis si assista a chissà quale provocazione, e a farne le spese qui è il parroco interpretato da Bebo Storti – l'operina scivola via senza infamia e senza lode, ben lungi dal replicare l'amara ironia del modello risiano, e tuttavia senza infangarne la memoria. Ibrido tra commedia amara – si ride pochissimo, e non è per forza un male – e trampolino per gag da cabaret milanese, è inutile, ma non nocivo: ed è già tanto.