Posh

Voto: 3/5 - 
Titolo Originale: The Riot Club
Un film di Lone Scherfig. Sceneggiatura: Laura Wade
Genere: Commedia - Regno Unito (2014) Durata: 106min.
Produzione: Blueprint Pictures. 
Distribuzione: Notorius Pictures
Un gruppo di ricchi e sregolati studenti di Oxford si riunisce, ogni anno, per celebrare l'appartenenza all'esclusivo Riot Club. Quest'anno, però, rischiano di farsi sopraffare dai loro giochi goliardici.

Curiosa usanza quella di cambiare il titolo di un film importato ma lasciarlo nella lingua d’origine, soprattutto quando il titolo n°1 è chiarissimo e anzi, risulterebbe ancora più esplicativo del titolo n°2. Che differenza c’è, infatti, tra Posh e The Riot Club? Posh è un termine che indica quell’accento britannico tipico della loro upper class, e per estensione il ceto sociale di riferimento. The Riot Club, invece, indica l’argomento del film: studenti ricchi, annoiati e arroganti che appartengono all’esclusivo club, appunto, fondato da loro antenati aristocratici molto libertini e viziosi, o solo intenti a godersi la vita. Il Riot Club è stato inaugurato alla morte del suo membro – è proprio il termine adatto – più carismatico, soprannominato non a caso Lord Riot. In questo caso, tuttavia, il motivo non è la preoccupazione per eventuali incomprensioni del pubblico: Posh è semplicemente il titolo dello spettacolo teatrale scritto da Laura Wade, che lo ha poi adattato per il cinema. Dunque, perché cambiarlo e lasciarlo in inglese?

Tornando al film: la sceneggiatrice stessa e la regista affermano di non far parte di quel ceto sociale ma di essersi molto divertite a immaginare i comportamenti meschini di quei ragazzi, vederli divertirsi senza un freno morale, che cercano di comprarsi il rispetto di tutti coi soldi e che rimangono uniti solo perché, in fondo, sono tutti dei vigliacchi. Ci sono riuscite: l’ironia della storia è sottile e coinvolgente; dà l’impressione di appartenere a un altro club esclusivo che si gode, dall’esterno e quindi al sicuro, le scorribande di questi studenti, figli di papà, ridendo con loro ma anche un po’ di loro. In cuor nostro, però, sappiamo (o speriamo) di essere delle persone migliori, e questa nostra convinzione pare essere la stessa del protagonista, Miles (Max Irons), almeno per la prima metà della storia. L’accesso al Riot Club gli pare uno svago come tanti, da non prendersi troppo sul serio, come invece deve credere il suo rivale Alistair (Sam Claflin). Miles è socievole, ha una fidanzata e non disdegna la compagnia dei comuni mortali, ma soprattutto è un tipo sveglio: uno di quelli in grado di cavarsela, quando si è oltrepassato il limite e non si è più in grado di nascondere la propria natura di pussy. Esattamente quello che succede al presidente di questa setta, tanto algido e sicuro di sé dietro i vetri oscurati di una macchina di lusso quanto codardo nel momento di assumersi le responsabilità sgradevoli del suo ruolo. Che sia sobrio o ubriaco. Alistair, invece, è più introverso e schiacciato dalla fama di suo fratello, ex studente del collegio e memorabile ex presidente dei riottosi. È questo che lo spinge a posizioni tanto drastiche all’interno del club, che avevano comunque favorito la sua accettazione. «Non dobbiamo giustificarci per quello che siamo!», dice, cogliendo quel lieve malessere diffuso tra i suoi compagni. Era l’ultima valvola di sicurezza, quello che li faceva smettere quando avevano distrutto solo il locale in cui festeggiano, ogni anno, la fine di un ciclo e l’inizio del nuovo.

Se tutto questo fosse privato di quel riso amaro cui Lone Scherfig ci aveva abituato in Wilbur wants to kill himself o Italian for beginners, per esempio, ma che evidentemente preesisteva nel testo di partenza, avremmo probabilmente assistito a una variazione sbiadita – con i dovuti distinguo – dell’Attimo fuggente. Dissacrare, virare su un finale senza apparenti vincitori e vinti, non preclude e anzi esalta un germe di profondità psicologica, che la regista aveva saputo imprimere anche nella sua precedente incursione nell’Inghilterra “bene” anni ’60 di An education, quella volta tutta al femminile.
Laura Wade ha dichiarato, sulla scelta della regista per l'adattamento cinematografico: "Per me è stato fantastico che Lone dirigesse il film, a un certo punto Pete mi ha detto 'dovremmo parlare dei registi, scrivimi una lista di registi che ti piacciono' e Lone Scherfig era la prima della lista. Ho adorato An Education, l’ho visto più volte. Ho subito pensato che lei avesse un ottimo occhio per il mondo britannico, e ne ero sorpresa perchè lei non è inglese, ma aveva un leggero distacco tale da permetterle di osservare le manie britanniche con un occhio particolarmente forense e antropologico. È particolarmente propensa alla scrittura, anche lei scrive, ha un profondo rispetto del testo, ma è anche molto divertente e sa come far divertire, cosa che era veramente importante in questo contesto. È la migliore".
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