Alessandro Genovesi, non nuovo al linguaggio teatrale, firma un film con un cast eterogeneo poco valorizzato, e vittima di una sofisticazione troppo ricercata e quindi inutilmente posticcia.
Di Soap Opera si possono – e nemmeno troppo – apprezzare le intenzioni: l’ambientazione in una città innevata e non definita (sebbene in uno dei pochi esterni si intraveda la Basilica di San Lorenzo, a Milano), una pluralità di interpreti in campo varia ma non eccessiva, vaghe rievocazioni del cinema di Douglas Sirk, Jacques Demy e, più rozzamente, François Ozon. Quanto al resto, è occasione per determinare alcune riflessioni in merito all’operazione-fotocopia che, in fondo, contraddistingue il film in questione: non dissimile dall’impostazione dei precedenti lavori di Alessandro Genovesi (La peggior settimana della mia vita e Il peggior Natale della mia vita), Soap Opera paga lo scotto di una perigliosa codificazione tra linguaggio teatrale – universo al quale Genovesi stesso è notoriamente vicino – e realispressionismo insopportabile da serie tv italiana in prime time, dove i membri di una coppia riescono a chiamarsi amore evitando di ricorrere all’utilizzo dei nomi di battesimo, e dove i dolori si dimenticano con i colpi di fulmine.
L’impianto teatrale si riconosce nello spazio fisico in cui i personaggi si muovono, generando un mini-immaginario che potrebbe essere anche interessante: un suicidio di un inquilino mette in circolazione le nevrosi degli abitanti di un piccolo condominio, ognuno afferente a un ruolo sociale diverso, ma alle prese con una tragedia che li dovrebbe accomunare tutti. Dovrebbe, poiché sin da subito si intuisce come l’operazione sia costruita attorno al personaggio di Fabio De Luigi, che ormai si muove con il pilota automatico e non riesce a staccarsi dal ruolo di bietolone cui piovono addosso donne incredibilmente belle (nel caso specifico, l’Elisa Sednaoui di La leggenda di Kaspar Hauser e Cristiana Capotondi): non solo regge male come protagonista, ma sfigura di fronte al cast schierato attorno a lui. Diego Abatantuono gigioneggia nei panni di un maresciallo dei carabinieri poco preciso e vagamente aggressivo (la scena della caserma è da manuale di recitazione, e uno dei pochi momenti davvero riusciti dell’opera), Ale e Franz, funzionano, costretti a una dinamica para-aldrichiana (ogni riferimento a Che fine ha fatto Baby Jane? non è puramente casuale), Chiara Francini sposa in pieno etiche ed estetiche di un’attricetta da soap opera – e vai con il riferimento al titolo… - e Caterina Guzzanti fa quel che può con il minimo screen time riservato al suo personaggio – con tanto di topless, peraltro. Si vorrebbe dire lo stesso di Ricky Memphis, ma la sciatteria con cui la sceneggiatura immerge il suo personaggio in una baraonda di pulsioni omoerotiche (trattate in maniera straordinariamente reazionaria, quando non bacchettona) influisce talmente tanto da intaccarne la performance: non è insopportabile come De Luigi (che comunque il mestiere ce lo mette), ma tant’è. E l’atmosfera con la quale si vorrebbe estraniare il film dal resto delle commedie prodotte nel Belpaese, con fiocchi di neve che cadono sui cuori (sic!), situazioni alla ultimo Resnais (gli piacerebbe…) e una sofisticazione ricercatissima (che si sposa con l’inno teatrale cui l’opera intiera si vota) crollano davanti alla banalità sconcertante delle situazioni, al pressapochismo, alla piattezza.
Non che i momenti divertenti non ci siano, ma gli intrecci tra caratteri che potevano apparire potabili nel già imperfetto Happy Family (2010) di Salvatores – da Genovesi sceneggiato e messo in scena anni prima al Teatro dell’Elfo di Milano – qui girano a vuoto e, soprattutto, evidenziano voragini identitarie gravi e sostanziose. Si ha come la sensazione di vedere una torta benissimo elaborata, che è però vecchia di tre mesi; o di appollaiarsi su un divano in broccato che, se ne rivolti i cuscini, nasconde la pipì del cane.