Mark e Dave Schultz sono due campioni olimpici di lotta libera: li unisce un forte legame famigliare, ma Mark subisce spesso la fama del fratello, che tende a oscurarlo. A cambiargli la vita è la telefonata che arriva un giorno da John E. du Pont, un allenatore di lotta libera e ricco filantropo della Pennsylvania, pronto a offrire fama e soldi al minore degli Schultz in cambio della sua presenza nel Team Foxcatcher, istituito da du Pont per vincere i Campionati del Mondo. Mark decide di accettare, vendendo la propria forza e abilità a un uomo ricco, senza scrupoli e che nasconde il proprio egoismo dietro il concetto di patriottismo.
Foxcatcher è il terzo lungometraggio di Bennet Miller, regista già di Moneyball, pellicola che confermava la sensibilità dell’autore per le vicende prettamente sportive. Basato sull’autobiografia di Mark Schultz, scritta nel 2014 e pubblicata in Italia nel mese di gennaio, il film è un’introspezione forte, ma allo stesso tempo molto lenta, del sottotesto dei soli tre personaggi intorno ai quali gira l’intera vicenda: difatti al di là di Mark (Channing Tatum), Dave (Mark Ruffalo) e John (Steve Carell) sembra esserci un fumo abbastanza nebbioso intorno agli altri partecipanti alla vicenda, se non per la madre di du Pont, inserita come palliativo del disagio sociale nel quale vive il figlio e come freno artificiale alla passione per la lotta dello stesso. Una scelta che ci permette di tenere alta la concentrazione sulle vicende dei tre, cogliendone meglio i dettagli e le caratterizzazioni.
In tema di attori è inevitabile non pensare subito a Steve Carell, autore di una interpretazione che ha fatto ampiamente discutere: arrivato fino alla nomination per il miglior attore protagonista nei panni di John du Pont, l’attore di Concord indossa una maschera che lo rende quasi irriconoscibile, sia dal punto di vista recitativo che dal punto di vista facciale. Gli anni non sono stati benevoli con du Pont, un uomo che ha deciso di dedicare la propria vita, morigerata e spesso pacata, ai vizi della cocaina, all’uso di pistole e fucili e alla collezione di armi belliche. Un filantropo che però ha deciso di nascondere tutti i suoi abusi e le sue perversioni sociali dietro la scusa del patriottismo. Carell riesce a mettere in scena una summa minuziosamente perfetta di un John du Pont vero, tangibile, che riesce a infastidire lo spettatore con i suoi modi così come nella realtà riuscì a infastidire, ma allo stesso tempo a sedurre - non sessualmente - e convincere, Mark e Dave Schultz. Affiancato, quindi, da un ottimo Mark Ruffalo e da un eccessivamente passivo Channing Tatum, relegato a un ruolo di insofferenza priva di reazione, Steve Carell riesce a conquistare il pubblico, per la naturalezza usata nel compiere gesti completamente fuori dal normale e per la pacatezza dimostrata anche nel far sparare una pistola.
La sceneggiatura, affidata a Dan Futterman, già sceneggiatore delle altre tre precedenti pellicole di Miller, riesce a risultare fluida, a condurre lo spettatore fino alla fine, ma ha il gravissimo peso di essere eccessivamente lenta, pedissequa. L’arrivo alla conclusione della vicenda, al colpo di coda finale, è troppo lento, per una vicenda che poteva essere risolta decisamente prima. Inoltre a inficiare la buona riuscita del prodotto sono anche le critiche di Mark Schultz rivolte agli autori nei giorni successivi all’uscita della pellicola: l’eccessiva libertà narrativa di Miller e Futterman ha effettivamente scatenato l’ira del campione olimpico, che ha voluto sottolineare come il suo rapporto con du Pont fosse stato meno morboso di quanto appaia nella pellicola: va da sé che la narrazione cinematografica, laddove si esula dal bio-pic, necessita di edulcorazioni e il binomio creato da Schultz e il filantropo americano meritava di essere potenziato e rimpinguato con una serie di innesti che colpissero lo spettatore. Lo Schultz che cede alla cocaina, che decide di ammettere che du Pont è come un padre e un mentore per lui, è indubbiamente il movente perfetto che Miller e Futterman devono utilizzare per far risaltare la storpiatura sociale che rappresenta John E. du Pont. Un personaggio che per la sua controversa storia meritava di diventare materia prima per un film, per poter solo per un attimo osservare cosa ci fosse nella testa di un uomo che quasi da asessuato trovava il proprio piacere soltanto nel vestire i panni del patriota.
Pur non attenendosi perfettamente, quindi, alla vicenda originale, se non nei punti fondamentali, Foxcatcher si presenta come un film drammatico con degli ottimi spunti, ma eccessivamente lento nella sua esposizione, che avrebbe bisogno di uno snellimento generale e di una regia decisamente più ispirata: perché non può bastare usare una fotografia vetusta, così da poter richiamare gli anni ’80, per pretendere di aver realizzato qualcosa di originale. Per il resto si affida al trittico recitativo la grande capacità di aver reso Foxcatcher una pellicola capace di parlare con i movimenti del corpo e non della bocca e di aver dato movimento a una sceneggiatura troppo piantata nel terreno.