Dopo i labirinti di Shane Carruth e le megalopoli di Dredd, il mio pellegrinaggio tra i film di fantascienza inediti mi ha condotto oggi fra i boschi di Robot & Frank (2012), opera prima del regista americano Jake Schreier, approdato al lungometraggio dopo una carriera suddivisa tra pubblicità e videoclip. Si tratta di una riflessione sull'incidenza della tecnologia nella vita quotidiana e nei rapporti sociali, fedele all'idea secondo cui - citando Schreier - "la tecnologia non è né buona né cattiva, ma cambierà il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, e non è possibile fermare questo processo".
Per allestire questa riflessione, Schreier e lo sceneggiatore Christopher Ford, suo compagno di studi alla New York University Tisch School of the Arts, ambientano la vicenda in un futuro prossimo: Frank (Frank Langella) è un uomo anziano, ex scassinatore provetto, che vive da solo in una grande casa, suscitando le preoccupazioni dei figli Hunter (James Marsden) e Madison (Liv Tyler). Le giornate di Frank si dividono tra le visite alla biblioteca pubblica, dove corteggia l'affascinante bibliotecaria (Susan Sarandon), e le sortite in un negozio di articoli casalinghi, dove ha sempre l'abitudine di rubare piccoli oggetti. Hunter, però, si accorge che il padre comincia a mostrare alcuni segni di confusione mentale, e decide di affidarlo alle cure di un assistente sanitario robotico, che avrà il compito di occuparsi di lui sia nelle faccende domestiche sia nel trattamento dei sintomi di demenza senile. Frank accoglie il robot con frustrazione e diffidenza, ma il loro rapporto evolve progressivamente fino a tradursi in una vera e propria amicizia, soprattutto quando l'uomo scopre che il suo amico robotico apprende molto in fretta le basi del furto con scasso...
Il film si nutre di un dualismo piuttosto esplicito: Frank, legato al passato sia in termini personali sia culturali, si confronta con una presenza chiaramente proiettata verso il futuro, ma con cui stabilisce una relazione di amicizia fondata su modelli comportamentali umani, di complicità e apprendimento. Il robot, in tal senso, assume i tratti di un surrogato filiale. I veri figli di Frank riescono soltanto a incarnare due stereotipi opposti - lui è uno yuppie post-moderno, lei una hippie retoricamente buonista - ed esprimono un amore di stampo egoistico, tendente alla colpevolizzazione (lui) e al soffocamento (lei): in questo contesto, il robot, progettato con schemi comportamentali predefiniti, ma capace di simulare l'interazione umana e di porre in primo piano le esigenze del suo assistito, dimostra di "comprendere" le esigenze di Frank più e meglio dei suoi stessi figli, assecondando qualunque attività che stimoli i suoi processi mentali, anche a costo di violare la legge (su questo frangente è necessario sospendere l'incredulità: difficile credere che un robot con mansioni di assistenza sanitaria, programmato da un'istituzione ospedaliera, non abbia le leggi federali incorporate in memoria).
Si avverte però, al contempo, un'ambiguità latente, un'inquietudine che stride con il paesaggio apparentemente idilliaco in cui è immersa la casa di Frank, con la vegetazione fitta e il sole costantemente basso che filtra tra gli alberi, merito dell'ottima fotografia di Matthew J. Lloyd. È un'inquietudine generata dall'artificiosità di questo rapporto: Frank deve accettare il fatto che non ci sia nulla di realmente umano nel robot, poiché ogni sua reazione è simulata, non scaturisce da vere emozioni o sentimenti tangibili. Da questo punto di vista, il film di Schreier si allontana dai modelli "classici", su tutti Asimov: l'umanizzazione del robot non è possibile, e la "macchina" non può mai varcare il confine delle sue funzioni originarie. Questa consapevolezza si oppone, paradossalmente, alla spiccata personalità emanata dal robot, tanto più sorprendente se consideriamo l'assenza di espressioni facciali. Trincerato in una scocca bianca, asettica, con la testa che somiglia a un casco spaziale, ricorda moltissimo il celebre ASIMO della Honda, ed è stato concepito per essere verosimile: un aiutante robotico che potrebbe realmente abitare le nostre case in un prossimo futuro, assistendo la crescente popolazione anziana in vece di figli, nipoti e parenti. Non a caso, il robot non riceve mai un nome proprio, ma è identificato soltanto da una sigla, allontanandosi così dalla tradizione di automi e intelligenze artificiali umanizzate che il cinema ha raccontato nel corso degli anni. Persino il robot di Moon, GERTY, che di umano aveva ben poco ed esprimeva gli "stati d'animo" attraverso un semplice smile, era in grado di elaborare una sorta di empatia, sincera e credibile, verso la condizione del protagonista. Ma nulla di tutto questo accade in Robot & Frank, e l'inquadratura finale risulta emblematica: il robot è totalmente anonimo, spersonalizzato, prodotto in serie, ed è programmato per adattarsi alle esigenze di chiunque lo richieda.
Schreier e Ford, insomma, immaginano il futuro a partire dal nostro presente, ma non hanno bisogno di esasperare nulla. Ciò che raccontano è infatti la naturale evoluzione degli eventi: l'interazione con la macchina è un surrogato dei rapporti umani (similmente a quanto accade oggi quando ci interfacciamo con cellulari e social network), mentre le tracce fisiche della memoria si dissolvono nella nebulosa intangibile dell'archiviazione digitale: la biblioteca frequentata da Frank si appresta a smaltire tutti i testi cartacei per lasciar spazio a un database elettronico, trasformandosi così, da luogo di studio e meditazione individuale, in spazio di aggregazione sociale. Suona come un paradosso, in un'epoca che virtualizza i rapporti sociali e isola l'individuo nel suo eremo telematico, dal quale lancia grida d'aiuto attraverso la rete di facebook, twitter o instagram: la necessità di un luogo d'incontro fisico si fa sentire anche per i nativi digitali, ma la sua (ri)costruzione esige il sacrificio di un monumento istituzionale come la biblioteca, stravolgendone il ruolo in nome delle nuove generazioni. Lottare contro questo mutamento, come cerca di fare Frank, equivale a combattere contro i mulini a vento: non è certo un caso se il testo più prezioso della biblioteca sia proprio un'antica edizione del Don Chisciotte, che Frank sottrae dalla cassaforte con l'aiuto del suo amico robot. Come ha già scritto Matteo Bittanti su Wired, i ruoli di Don Chisciotte e Sancho Panza calzano a pennello su entrambi.
Ovviamente bravissimo Frank Langella, che oscilla con gran classe tra i momenti di confusione e i barlumi di lucidità del suo personaggio, recitando costantemente in sottrazione. D'altra parte, il film è giocato sul medesimo approccio: la messa in scena essenziale valorizza il rigore delle inquadrature, e i pochi elementi fantascientifici sono abilmente diluiti nel contesto narrativo. Da vedere.
Il salto temporale della settimana: Zinì e Amì
Sul piano dei rapporti fra uomo e macchina, con la illusoria umanizzazione relazionale che ne deriva, c'è grande attesa per Her di Spike Jonze, ma noi la possiamo ingannare guardandoci questo delizioso cortometraggio di Pierluca Di Pasquale intitolato Zinì e Amì. Già, è un corto italiano: il protagonista Alessandro Tiberi è tormentato da una fidanzata bellissima che lo travolge con dichiarazioni d'amore ossessive, al punto che il ragazzo decide di rivolgersi a uno "specialista"... sarà un difetto di programmazione?
Insomma, c'è chi non ama affatto, e c'è chi ama troppo. Zinì e Amì è una piccola commedia fantascientifica che dimostra come certe tematiche abusate dal cinema italiano possano trovare un po' di freschezza grazie all'ibridazione dei generi, e la fantascienza è permeabile a qualunque influenza esterna.
Appuntamento a lunedì prossimo!